Con una buona storia in tasca, puoi girare tutto il mondo
Lettura di Daniele Pasquini, Selvaggio Ovest, NNeditore
Con Daniele Pasquini ho avuto il piacere di parlarci. È capitato qualche mercoledì fa, dev’essere stato il 13 marzo, quando abbiamo presentato insieme il suo ultimo romanzo Selvaggio Ovest.
Ci siamo incontrati a Conegliano, nella libreria in cui lavoro, Tralerighe. Daniele era seduto sulla poltrona che poi sarebbe diventata il nostro palco. Il look era quello di un buttero moderno; camicia in flanella a quadri rossi e neri, jeans, scarponi e computer su cui lavorava a qualche progetto editoriale. O magari giocava a scacchi, non lo so, non glielo ho chiesto.
Pensandoci bene, più che un buttero moderno, forse somigliava a uno scrittore di frontiera, soprattutto mentre preparava la pipa che avrebbe fumato. Faulkner fumava la pipa? Cromac McCarthy?
Oppure.. sì, anche quest’idea mi ha velocemente attraversato, “dev’essere un appassionato del grunge”, di Seattle e della provincia. Anzi, meglio ancora, di qualcuno che è cresciuto sull’onda di Vasco Brondi e Le luci della centrale elettrica. Qualcuno che ha “iniziato a scrivere libri perché non era abbastanza bravo a suonare”1.
Che Pasquini suonasse la chitarra l’ho scoperto mentre ci siamo presi un caffè, prima però c’è un’altra cosa che ho scoperto di lui: non è un patito dei western. Intendo film western. Se inizialmente la cosa mi ha sorpreso, smontando alcune congetture e domande che mi ero preparato per l’evento, non nego che questa affermazione mi abbia rassicurato. Non avrei dovuto spacciarmi per grande conoscitore del genere, dato che oltre sapere a memoria tutte le battute della Trilogia del dollaro, non mi sarei potuto spingere molto oltre. Ma soprattutto, capivo che ci saremmo spinti nel territorio dell’immaginazione, della creatività, del romanzesco; lontani dal feticismo dell’autofiction e del documento storico. È una grande consolazione per me oggi.
Selvaggio Ovest (NN editore) è ambientato in Maremma, sul finire dell’Ottocento, quando William Cody, meglio noto come Buffalo Bill, decise di portare in Italia il suo spettacolo Wild West Show. La storia narrata però non è quella dello show di cowboy e indiani, quella è solo una delle trame che si inseguono lungo il romanzo. Ci sono Giuseppe (Penna) e sua moglie Leda, che accolgono e crescono Donato, figlio di genitori morti di malaria, piaga dell’agro paludoso in cui abitavano. Donato e Penna sono due butteri, ovvero allevatori di bestiame dell’ovest italiano. Il rapporto padre figlio è forse il sentiero lungo cui si muove tutta la narrazione. Su questo sentiero incontriamo una banda di briganti, capeggiata da Occhionero e poi una ragazza, Gilda, carbonaia venduta ai briganti dal padre come prostituta, ma capace di vendicarsi e fuggire. All’epica di questi personaggi fanno da contraltare la tragica comicità dei Carabinieri, Orsolini su tutti, incapaci di imporre la loro autorità sul territorio del Regno. Piaga che si aggiunge a esistenze già piegate, solcate dall’aratro dell’esistenza. Poi una fiera del bestiame, giochi e un furto. Un lungo inseguimento a indiani in fuga, fino a Firenze dove Penna e suo figlio incontreranno Buffalo Bill e, soprattutto, Alce Nero.
Queste avventure sono intervallate da lettere e articoli di giornale relativi a Buffalo Bill e il suo show. Questi materiali, come spiega l’autore nella nota finale, sono ricostruiti e riscritti a partire da materiale storico reperito in archivio e realmente prodotto. Pasquini però gioca con la materia storica e lascia libertà alla sua penna, senza curarsi di distinguere tra realtà e finzione, tanto che, come ho scoperto più tardi, tra le profonde boccate della sua pipa, molte firme assegnate a quei materiali sono giochi di parole che nascondo omaggi a personaggi come Sergio Leone o Larry McMurtry.
La trama godibile e avventurosa e uno stile molto chiaro non sono gli unici motivi che debbono spingere alla lettura del romanzo. Anzi, Selvaggio Ovest ha ben altre qualità, che stanno in un contenuto rivolto alla contemporaneità.
I due antefatti collocati in luoghi e date differenti mettono subito in risalto il ribaltamento dei punti di vista tra provincia e grande città, tra Europa e America, tra Maremma e far-west. È proprio nella lettera di Ned Butline a Bill Cody che si esplicita questa visione: “La vera differenza la fa quel che si racconta”.
La vicenda di Buffalo Bill in Italia infatti è ricordata non solo per l’immaginario che lascia, ma anche per un particolare episodio. In Italia il circo di Cody non si è solo esibito ma è anche stato sfidato dagli allevatori locali, i butteri per l’appunto. Questa sfida da rodeo a bestiame invertito sembra essersi realmente risolta con una figuraccia degli americani. Questo episodio contiene una forte dichiarazione di poetica da parte di Pasquini: “l’autofiction ci ha rotto le palle”. Egli sembra riprendere dalla lezione del realismo magico di Calvino, così come Griffi. La realtà non deve essere per forza grigia e borghese. Ogni luogo contiene un’epica potetente, dipende da cosa se ne racconta. Certamente questi autori non sono ingenui che pretendono di sostituire la finzione alla realtà, forse quella è più una peculiarità di certo biografismo propagandistico. Non si può applicare loro nemmeno la sentenza “sorrentina” : “La realtà è scadente”. Tutt’altro! Essi (ed io con loro) sono però convinti che la realtà sia grandiosamente pregna di storie ma che sia anche migliorabile e questa perfettibilità sia attuabile solo attraverso il potere dell’immaginazione. Lo stesso potere che ha permesso grandi scoperte e, bisogna dirlo, pessimi utilizzi delle stesse.
Su questo Pasquini non ammette sconti né si rifà a modelli nostalgici. Appare chiaro durante la descrizione della violenza esercitata dai banditi sul corpo della giovane Gilda.
“Me l’hai insudiciato, puttana”. Gilda era incapace di parlare, aveva gli occhi sbarrati. Poi Rogo fece un passo indietro, prese un bastone da terra, e glielo ficcò lì. La ragazza urlò di dolore, ma lui le tappò di nuovo la bocca. Tirò fuori da una tasca una fiaschetta e versò un liquido vischioso sull’estremità del bastone. Poi con l’acciarino appiccò la fiamma e rimase a guardarla. Il bastone bruciava piano, consumandosi lentamente.
Questo è il terzo bandito che consecutivamente s’impone sulla carbonaia. La descrizione è una professione di realtà nei confronti dell’epopea dei cattivi (nei western e non). Un meccanismo che Pasquini ripropone a più passaggi. Porta il lettore a simpatizzare, quasi a strizzare l’occhio al bandito, per poi sputare in faccia la realtà dei fatti, quella che spesso viene celata nei racconti, tacendo la violenza e le conseguenze dei gesti. Un’attitudine che permane anche al di fuori della letteratura dove, spesso, una zona d’ombra, nascosta dal mito di certi personaggi (penso all’Einstein dei rapporti personali con la moglie), giustifica il dolore di alcuni per il piacere di altri.
Pasquini risolverà la questione con un contrappasso dantesco di bella creatività.
A questo proposito non possiamo che passare alla rappresentazione dell’arma dei carabinieri, capaci unicamente di prendersi meriti non loro e fuggire le loro colpe. In questo romanzo i funzionari del regno fanno una figura peggiore dei banditi che, coerenti con il loro nome, agiscono per i propri scopi. Quando però lo stesso individualismo viene applicato a chi dovrebbe servire i cittadini, finendo addirittura per ucciderne uno, ecco, in quel caso la barzelletta diventa tragedia e nessuna simpatia resta per chi, fermo sulle proprie postazioni, sa solo allontanarsi da ogni responsabilità e decisione.
Bitossi prese il foglio dalle mani del capitano e lo lesse rapidamente, sgranando gli occhi. Infine si congedò e si mise all’opera, sorridendo soddisfatto per l’inattesa e confortante piega degli eventi, scoprendosi orgoglioso, senza un briciolo di dignità, per l’abilità con cui si era salvato il culo.
Ci sono tante altre figure che meriterebbero di essere analizzate. Donato, figliastro in cerca dell’approvazione del padre. Alce Nero, capo indiano capace di orientarsi in Maremma meglio del carabiniere Orsolini. La figura in un mistico che compare a mendicare cibo e compagnia tra i boschi. Il bpsco stesso, che accetta e offre riparo a chi non vuole vivere la vita dell’uomo moderno e rigetta chi cerca di insediarvisi con pessime intenzioni.
Se dicessi di tutto questo però, vi toglierei il piacere della lettura.
Con Selvaggio Ovest, Daniele Pasquini cerca di rendere alla letteratura quello che oggi le manca: l’ epica della relatà. A volte la sua prosa eccede nell’immaginario rapporto della prateria con il divino. L’azione forse ne risente, ma le parole necessitano di ritrovare un tono solenne, anche tra le stronzate della vita. Uno scrittore infondo non deve dire la verità, deve amplificarla, questo perché la realtà è scadente solo quando il suo racconto lo è.
“Daniele, ma tu proprio non ci sei in questo romanzo?”
“Io sono il toro che compare sul finale”.
Quindi attenti a non farvi caricare!
nei virgolettati riporterò qualche dialogo tra me e l’autore. Non ho registrato nulla, dunque la ricostruzione sarà preda della memoria, d’altronde, citando, contratti son la realtà non ne esistono e “alla verità in fondo hanno rinunciato tutti”.